La ricerca dell’amore a tutti i costi in una geografia del non-luogo
Potrebbe essere un posto qualunque il non-luogo di Dogman, il film di Matteo Garrone presentato a Cannes 2018.
Protagonista insieme ai personaggi del film, è la periferia, filmata e raccontata dal regista de L’imbalsamatore, Gomorra e Primo Amore come spazio filmico e semiotico, uno spazio fatto di degrado e “decentrato” rispetto a qualsiasi altro scenario che, per chi lo abita forse, non è dato nemmeno immaginare.
Girato a Castel Volturno pensando alla Magliana, Dogman parte da un fatto di cronaca assai noto (quello legato al Canaro) per narrare l’universalità di una condizione umana, attraverso un ottimo lavoro di astrazione che, appunto, usa solo lo spunto della cronaca per andare ben oltre.
Il protagonista della pellicola, Marcello (interpretato da Marcello Fonte che con Dogman ha vinto la Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes come miglior attore, già fortemente personaggio prima di esserlo sulla pellicola) è un uomo che cerca amore e conferma della propria esistenza e che attraverso l’affermazione nella comunità dove vive, vuole “sapere di esserci”, come qualunque essere umano. Anche se il suo è un ”essere presente” in una realtà nella quale nessuno vorrebbe vivere.
Simone, la testa calda del gruppo che popola il quartiere, ovvero il personaggio che più degli altri si è spinto oltre un limite sempre ad un passo dall’esser superato da quelle parti, è in fondo l’alter ego di Marcello; rappresenta la sua parte peggiore che ogni giorno gli si para dinanzi, a ricordargli che forse non ha scampo e che sarà molto probabilmente impossibile per lui diventare altro da quello.
La geografia che ne disegna la vita e nella quale è non solo inserito ma di cui fa parte integrante, quei luoghi decadenti e fatiscenti, non sono solo il posto che lo ospita e dal quale potrebbe magari un giorno sperare di allontanarsi. Sono lui, la sua stessa essenza. Lo spazio che lo accoglie e lo rifiuta a un tempo, è una natura matrigna che non dà scampo. Infatti non si intravvede nemmeno un luogo oltre quello, per lui e per gli altri che lo circondano; così come per i cani che cura per mestiere, l’orizzonte è la gabbia.
Pasolini riecheggia da ogni angolo, soprattutto nel gruppo, con quel mare marrone che fa da sfondo alle imprese quotidiane che parlano di vita e di espedienti.
Non esiste morbosità né moralismo nello sguardo di Garrone, ma solo il racconto di un uomo, nella sua ancestrale necessità di venir accettato e nell’umanità che si muove intorno a lui, che ne disegna prospettive e confini.
Insieme alla capacità di narrare certi luoghi e situazioni e un’umanità periferica, c’è in Garrone quella di evocare una violenza che si attende e teme – in molti punti del film – molto più grande di quella che in realtà viene filmata e che in fondo sfocia “solo” nella scena madre dell’assassinio di Simone.
E che culmina con l’immagine finale fortemente cinematografica del protagonista, che cercando solo amore e riconoscimento, trova invece la sua negazione in un gesto definitivo, del quale porta e porterà sempre il peso sulle proprie spalle. Letteralmente.