L’era glaciale della nuova Russia
Freddo, spaventoso, agghiacciante.
Se ne potrebbero trovare tanti di aggettivi per descrivere questo film, ma soprattutto l’idea di società che esso sottende. Sono una famiglia e una Russia contemporanee quelle spietatamente fotografate dalla macchina da presa di Andrey Zvyagintsev, il regista di Loveless.
Il titolo del film non lascia spazio all’immaginazione e margine al pensiero perché è proprio ciò che il film racconta: l’aridità totale di una famiglia, mancanza di cuore che qui è estesa a un intero Paese.
Love-less, senza amore.
La coppia protagonista del film si scambia odio dal primo fotogramma e non riserva altro che una glaciale e intollerabile indifferenza al loro unico figlio dodicenne.
La storia di un divorzio che qui, invece di veder i quasi ex coniugi contendersi il figlio, ne fa un elemento di peso, qualcuno (anzi qualcosa è il termine corretto) di cui liberarsi per poter iniziare ciascuno la propria nuova vita: un amante ricco per lei, una nuova compagna (e un nascituro) per lui.
Nella scena madre del film, il povero dodicenne Alyosha assiste non visto a una lite tra i genitori che dichiarano di non volerlo prendere con sé e che rivelano esser preoccupati solo delle conseguenze che un abbandono in orfanatrofio della prole potrebbe portare a livello di “seccature” dei servizi sociali.
Un’idea di genitorialità che fa venire i brividi; che si sposa in modo perfettamente parallelo, a un’idea di Russia senza valori, spietata e che sembra aver raccolto solo il negativo dell’occidente: la superficialità, l’egoismo, la perdita di umanità, sottolineata in ogni scelta e in ogni gesto di una borghesia improvvisamente arricchita, che da contadina ha fatto un salto nella scala sociale e che vive incollata al cellulare.
L’elemento disturbante è forte: riguarda gli adulti in scena ma ferisce a morte un bambino (che si vede solo per pochissimo tempo prima che scompaia da casa) che vive la loro glacialità sulla propria pelle, anche letteralmente.
Il discorso sulla freddezza va parallelamente avanti coi personaggi e come metafora per la Russia, forse in alcuni momenti un po’ troppo didascalicamente: se si pensa a scene come alla sfuriata della madre di lei – che in un colpo spiega forse la derivazione della sua anaffettività e quella della Russia e delle sue radici – alla notizia della violenza e della sofferenza inflitta all’Ucraina appresa in un salotto di lusso, fino alla vana corsa finale di Zhenya sul tapis roulant, all’aperto e sotto la neve; una corsa sterile che non porta a nulla come – ci dice il regista (la scritta Russia sulla tuta di lei ne è una metafora molto urlata) – la corsa senza valori di una nazione.
Insomma, l’istantanea di una società desolata e disperata, terrificante e senza speranza; un film che visivamente offre geografie interessanti e totalizzanti, orizzonti di ghiaccio dove il freddo non concede movimenti del cuore e narrativamente evoca a tratti le Scene da Un Matrimonio di Bergmaniana memoria, epurate da ogni sentimento, o le atmosfere di certi momenti di Deserto Rosso di Antonioni.
Un mondo dove la famiglia non è un rifugio caldo ma un inferno da cui scappare, o diventa l’assurdo requisito per lavorare in un’azienda il cui datore di lavoro ultra ortodosso accetta solo dipendenti sposati e con prole.
Mentre fuori, le emittenti TV dipingono scenari di un mondo in tumulto.