La tragedia greca tra Euripide e Kubrick
Andando a vedere un film di Yorgos Lanthimos ci aspettiamo (almeno) una serie di elementi che lo rendono riconoscibile: il paradosso, il grottesco, il distopico, l’angoscia, la solitudine.
Nel nuovo Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer) il regista greco non ci delude e ripropone – sin dalla inquadratura iniziale, primissimo piano di un cuore pulsante nel corso di un intervento chirurgico – il suo sguardo tagliente che affonda su una catena di eventi, che vanno dal banale allo spaventoso.
In questa storia, che non è altro che il volgere di una “normalità” (la famiglia borghese-ricca-potenzialmente perfetta) verso il baratro dell’assurdo in un vortice inesorabile che tutto trascina con sé, la freddezza dei personaggi e l’atmosfera glaciale che investe la loro quotidianità li condurrà in una situazione dalla quale non sapranno uscire. O meglio, ne usciranno, ma solo attraverso morte, dolore e sconfitta.
L’elemento perturbante che si fa via via più forte insieme alla mancanza di emozioni, pervade questa pellicola, investe i personaggi, l’atmosfera, le posizioni della macchina da presa. I due coniugi medici protagonisti de Il Sacrificio del Cervo Sacro, che vivono e praticano la professione in ambienti asettici come ospedali e sale operatorie, hanno un atteggiamento freddo con i loro figli, tra di loro, con gli altri; persino nell’intimità non riescono ad annullare lo spazio che li separa (emblematica la posizione “da anestetizzata” che assume lei prima dell’atto sessuale e che rende lo stesso meccanico e ripetitivo, oltre che rituale).
Il Sacrificio del Cervo Sacro è un film che dal punto di vista tematico, ma anche da quello strutturale, fa suoi i temi della tragedia classica, quella dell’Ifigenia di Euripide (chiaramente citata): il tema del capro espiatorio, del sacrificio, della colpa dei padri che ricade sui figli innocenti. E propri della tragedia classica sono l’universalità dei temi trattati e la forte fisicità nella rappresentazione, che qui ritroviamo pienamente.
Quello che manca è però l’elemento corale, la comunità che accoglie e dà un senso alle azioni: nel film di Lanthimos, alla base della vita e delle scelte dei protagonisti c’è solo individualismo (inteso come singolo e come nucleo familiare) ed egoismo (nella ricerca di uscire al meglio e senza conseguenze da una situazione tragica).
A supporto della narrazione classica ci sono le inquadrature spesso vertiginose, con punti di vista che diventano anche un netto lancio a strapiombo negli spazi, a sottolineare la caduta del protagonista.
Un percorso narrativo che, se sfiora il ridicolo, non ci arriva comunque mai, mantenendo autenticità e una buona coerenza nella finzione.
Le inquietanti figure sono perfettamente incarnate dagli attori, a partire dal ragazzino venuto a pareggiare i conti facendosi mano inesorabile del fato, passando dal chirurgo che appare inadeguato e spesso stordito e per la moglie, una Nicole Kidman algida e simbolo del dolore materno (asetticamente incarnato).
E Nicole Kidman è uno dei tanti elementi kubrickiani del film; che però non direi semplici omaggi.
Le inquadrature della Kidman davanti allo specchio, la sua stessa presenza come richiamo alla protagonista di Eyes Wide Shut, il rapporto tra i coniugi, i carrelli della mdp lungo i corridoi dell’ospedale che ripetono quelli mitici dei corridoi dell’Overlook Hotel in The Shining, l’utilizzo della colonna sonora e della musica, sono chiara volontà di portare dentro al film un po’ di sacralità e di perfezione dei capolavori di Kubrick.